Silloge poesia
Pagine 61 € 10
Edizioni Carta e Penna
Parlare di mafia nel panorama italiano è divantato quasi banale tanto siamo abituati all'orrore che suscitano i fatti di cronaca. Tutto ci sembra appartenere alla vita normale e accettiamo gli eventi conme fossero routine. Il merito dei testi contenuti in questa silloge è quello di fornire un punto di vista non convenzionale sulle cose che accadono guardando con gli occhi di chi è vittima e non di chi freddamente commenta gli avvenimenti. Così attraverso i versi di Tiziana riscopriamo l'uomo Giovanni, Paolo e tutti gli alri che hanno pagato con la vita il proprio senso del dovere, riviviamo i loro sogni, le speranze il dolore e tutte le quotidianità che non siamo più abituati a vedere nelle "persone" vittime della mafia,ci rendiamo conto che costoro hanno amato, sperato, vissuto come ogni altro essere umano e cogliamo pienamente la disperazione causata dalla consapevolezza di chi sapeva come sarebbe finita. Così ci rendiamo conto che Giovanni Falcone sapeva che " la morte gli dormiva accanto senza esserci", Paolo Borsellino sapeva che la morte lo avrebbe "guardato negli occhi " e gli avrebbe "chiesto di fare l'amore",gli uomini e le donne delle scorte sapevano che "ci voleva cuore a morire così, col profumo delle zagare nell aria di maggio".
E tutto ci appare in una veste inaspettata: dopo aver letto questi versi che senza retorica e facili conclusioni ci portano a una consapevolezza molto più vicina al reale, ci rendiamo conto che la mafia principalmente uccide gli uomini ma non può cancellare quello che questi uomini ci hanno insegnato, anche se molto spesso lo stato si ricorda di loro quando muoiono e non li protegge quando sarebbe necessario
Ed ora che sono polvere ed ombra
la ricordo quella voragine profonda, l’attimo che precipitava
l’inerme scivolare lungo il crepaccio
fino a planare in un cielo capovolto, in una calma di vento
Il cuore appoggiato ad un fiore di cristallo
e li ricordo i vetri rotti, gli occhi vuoti, la pena degli indifesi
l’attimo che segue al detto, il gorgo nella gola
la lentezza del tempo che gridava
il silenzio della parola monca
e ricordo che mi chiamavano Giovanni
che la morte mi cercava
ansimava ogni notte nel mio letto
mi accoglieva nel suo amplesso profondo
e mi dormiva accanto senza esserci
e le ricordo quelle belve impigliate sotto pelle
le pause come richiami, le parole sazie di stupore
gli occhi pesti di sogni ormai dimenticati
ed io che trattenevo il fiato rinunciando all’amore, al
futuro, alle certezze
e poi ricordo solo il mare, il profumo di zagare e limoni
il grido di Francesca aggrappato ad un altro nome
le lacrime, la sapienza del cuore
e tutto che taceva
in quel cielo azzurro dove finiva l’approdo
restava solo il silenzio dei vivi
il soffio di una luce guasta
ed un dolore assurdamente bianco
che ci sorrideva
a Capaci in quel giorno di maggio.