Premio Gens Vibia
Silloge poesia
Pagine 52
Da quanto tempo conosco Tiziana Monari? Preciso, a scanso d’equivoci, che io e lei non ci siamo mai incontrati e che pertanto la conoscenza è indiretta,attraverso le sue poesie. Era l’anno 2006, allorché lessi la prima, quella Patagonia di fuoco che mi stupì per la concretezza, non disgiunta tuttavia da invenzioni tali da ritrarre viva l’impressione di essere presente in quella lontana landa d’Argentina. Poi sono seguiti altri componimenti, tutti caratterizzati da una naturale inclinazione a esprimere in versi situazioni e sensazioni che non si estrinsecano solo in un virtuosismo lirico, ma che, andando più a fondo, scoprono un intimo non certamente incline al semplice formalismo. Dietro arabeschi e intarsi in effetti si celano una profonda spiritualità e un’angosciosa e costretta ribellione per un mondo che sembra premiare la materialità, una umana società fatta di tanti vinti e di pochi inarrivabili vincitori.
Riscontro queste caratteristiche anche nella presente raccolta, non certo tematica, trattandosi di poesie scritte in un lungo arco di tempo e di diversi argomenti.
Il titolo, La casa dei folli, è lo stesso di una di queste liriche, dedicata ad Alda Merini, versi che delineano una convinta e profonda pietà per esseri umani rinchiusi fra le mura di quelli che una volta erano chiamati manicomi e che ora si definiscono reparti di psichiatria.
Se può apparire fin troppo facile parlare di alienati mentali (loro sono dentro le mura, noi siamo oltre), c’è da dire invece che Tiziana Monari segue la via più indiretta, tortuosa e anche difficile della metafora, un modo per dire ciò che un certo intimo pudore tenderebbe invece a soffocare.
Sono tante le poesie di questa raccolta e fra queste molte meritevoli di almeno un cenno, ma è evidente che finirei con lo stancare chi avesse voglia di leggere questa prefazione e pertanto preferisco rimandarlo alle singole liriche, che sono senz’altro ben comprensibili.
In questa sede, pertanto, preferisco soffermarmi ulteriormente sulla poetica di Tiziana Monari, su questa sua costante e notevole produzione letteraria che ha trovato e trova convincenti risultati, come è possibile desumere anche dai numerosi concorsi letterari vinti.
Credo che per Tiziana scrivere poesie sia un po’ confessarsi, cioè scendere di scalino in scalino dentro il proprio “io”, per scoprirsi, per trovare ciò che lei non sa di se stessa, un percorso che è un po’ di tutti i poeti, ma che qui si articola in una variegata produzione letteraria, tanto che sono presenti la poesia intimistica, quella di viaggio e altro ancora.
Tutte però non sono quel che a prima vista sembrano e soprattutto non costituiscono un mero esercizio: nel racconto di un viaggio, magari in terre lontane, si inserisce anche una visione prospettica della vita, di un’esistenza che parrebbe solo di gioia e invece non lo è. Il suo però non è un pessimismo cosmico, non è un senso di inanità, di impotenza a poter cambiare il corso della propria vita, è invece una rassegnata e malinconica meditazione sul comportamento della specie, su un mondo che potrebbe
essere così diverso e così umano e invece purtroppo non lo è.
Non è un atteggiamento filosofico, o meglio lo diventa dopo aver provato nel proprio intimo un vivo dolore per ingiustizie che segnano a tanti, a troppi quel breve cammino che dobbiamo percorrere da una splendida alba a un oscuro tramonto.
E più il tempo passa, più matura l’esperienza, Tiziana Monari perde la sensualità astrale delle prime liriche per pervenire a tratti più ponderati, dolorosamente scolpiti sul foglio, voci sommesse di urla filtrate dal proprio “io”.
Sì, in lei tutto nasce e si sviluppa nel cuore e nell’anima.
Renzo Montagnoli
Diario di un dolore
E si fa porta quel sepolcro con un fiore
con la verga d’oro e l’erba di San Giacomo
polla preziosa, apoteosi e stella
in quell’incesto di dolore che stordisce
nell’assenza che è presenza
come un lume in una notte di tempesta
e lui, prestigiatore e cantastorie,
la sente l’umiltà serena del rimpianto
la tenacia dell’amore
le stoppie falciate dal vento dell’inverno
dopo ad aver sprangato l’uscio
ora che le sue sere
sono sere di minestre
mangiate di sbieco sul divano
sono rosari con illusioni da snocciolare piano
sono lacerazioni ed assenze
in giorni lunghi d’acqua,
sull’orizzonte lontano che svanisce
tutto è cucito a filo doppio sulle vertebre
questa stagione lieve di cicale
le sconfitte ed i fallimenti
il maglione stinto a trecce blu
che aveva fatto lei
quel tenere insieme i pezzi
per paura di perdere la strada
la vita si fa larga sulle spalle
diviene fuoco la memoria
la magnolia che tremola in giardino
e quella ragazza
che tagliava i fiocchi di neve nella carta
ora che il sogno è una chiglia
per approdare sui suoi seni in paradiso.
Non si sciolgono il nodo alla cravatta di sera, gli invisibili
presi a schiaffi dalla vita,dal vento
l’indigenza che vira intorno
pretendendo il loro tempo, la loro fatica
si portano dentro un monolite, un sasso
un silenzio vasto come il senso d’abbandono
in un fermo immagine di chi ha perso il senso l’orientamento,l’illusione
tutto va come deve andare
e loro, il trucco consumato,
i collants smagliati,
il berretto di sbieco sulla fronte
vivono asserragliati nei capannoni stinti
e quasi chiusi
nel ventre delle miniere di Sulcis,
nelle cime dei silos a Marghera
la solitudine del cucchiaio che sbatte contro la tazza del caffè,
la luce franata intorno
senza una via di fuga, un’apertura,
un disgelo
c’è l’anziana donna
che schiaccia i tasti del videopoker,
senza vincere mai
il nigeriano sfinito dal lavoro dei campi,
venti euro di paga al giorno
che chiede da bere
nel bar sonnolento del paese
e c’è Antonio, immobile sul divano,
in cassa integrazione
la pistola in tasca, la vita interrata
come radici di castagno
stanno così, ritirati sul confine
mentre la vita passa
nel profumo dei quartieri di periferia
stanno così e di domenica
sognano un prato di narcisi
le pietre focaie nella faggeta,
un cucciolo morbido e biondo come il grano.
Prima che sia ancora lunedì.
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