Prima classificata premio “Città di Vignola” con “I bambini di Deir Azzor”
Prima classificata premio “Città di Fucecchio” sezione Rotary Club con “L'isola dei conigli”
Prima classificata Memorial Miriam Sermoneta con “Un cappello pieno di pioggia”
Prima classificata premio “San Pio X” città di Massa con “Miriam Maria
Prima classificata premio “Gens Vibia” Marsciano con “La casa dei folli"
Prima classificata premio “Una storia partigiana”Lastra a Signa con “La triste signora blu”
Prima classificata premio Giotto città di Vespignano con “Un cappello pieno di pioggia”
Prima classificata premio “Cipressino d'oro”Kiwanis Club Follonica con “Jasmine”
Prima classificata “Prato un tessuto di cultura”con “La casa d'acqua”
Prima classificata medaglia d'oro premio “Città di Livorno” con “La farfalla rossa”
Prima classificata premio Anselmo Spiga con “Santiago ed il mare”
Prima classificata premio Campodipietra per la poesia con “La sera di Macondo”
Prima classificata premio “Le ali di Pindaro “Procida con “Jamila e sua madre”
Prima classificata premio “Mario Barale” con “La casa dei folli”
Prima classificata premio “Sabatino Circi” con “Jasmine”
Prima classificata premio poesia edita “Locanda del doge” con “La nera signora”
Primo premio Granducato di Alzano con “La casa dei folli”
Prima classificata premio Mondo Artigiano con “Ivo”
Prima classificata San Miniato Writing contest con “Il nonno e Jack”
Prima classificata premio Lo scrittoio con “La farfalla rossa”
Prima classificata premio Poesie al bar con “Gli occhi dei bimbi di Tikrit”
Encomio d'onore premio Targa Marcocci con “La casa dei folli”
Seconda classificata premio “La rosa ed altro”con “Le rose di Stazzema”
Seconda classificata Università popolare di Spinea con “L'ombra di Dio”
Seconda classificata premio “Giuseppe Fragrassi” con “Ottobre 95”
Seconda classificata premio Avis Capannoli con il racconto “Credo in un solo Dio”
Seconda classificata premio “poesie in strada”Colmurano con “Il viaggio”
Seconda classificata premio “Mani in volo” con “L'ospite inatteso”
Seconda classificata premio città di Quarrata con “L'ora d'aria”
Seconda classificata premio Cesare Vedovelli con “Apostasia d'amore”
Seconda classificata premio Capit con “Apostasia d'amore”
Seconda classificata premio Anna Savoia con “I fiori bianchi della Louisiana”
Terza classificata premio “Il delfino” con Santiago ed il mare
Terza classificata premio Granducato di Alzano con “Apostasia d'amore”
Terza classificata premio Montorfano Franciacorta con “Apostasia d'amore”
Terza classificata premio Lino Molinario con “La casa dei folli”
Premio speciale “il vino, la sua terra e noi”con “Il tascapane e la bottiglia”
Premio della giuria “Città di parole” con “L'ospite inatteso”
Premio speciale “Cesare Lavarino” concorso “Mario Barale” con “Al tre don”
Premio della giuria Lo scrittoio con “Apostasia d'amore”
2014
Primo premio "Città di Vignola"
I bambini di Deir Ezzor
Non giocano ai quattro cantoni i bimbi di Deir Ezzor
orfani di madri, scabri come frutti pallidi
giacciono in un cerchio senza cuore
in un alveare celato tra le nuvole
sanno di quiete i bimbi di Deir Ezzor
le bocche tenui, la bellezza volata via
congelati nel panorama quasi immobile della guerra
bambole scomposte in un dolore indecente, folle,dilagante
si addormentano nella supplica dell’alba i bimbi di Dear Ezzor
in una nudità che odora di frumento
cercando uno spicchio di luce, un gioco, una briciola d’amore
piccole perle spezzate senza più sostegno
non hanno arpioni per attaccarsi alla vita i bimbi di Dear Ezzor
quando intorno aleggia una morte dagli occhi di falce
e il veleno si fa strada in un silenzio cupo
dilaniando carne, anima e sogni
tutto è nero d’assoluto
i capelli imbrogliati dal disordine
le braccia senza forza spampanate al vento della sera
e la vita ciondola come un ninnolo
prima dell’ultimo bacio del mago delle favole.
E poi solo la notte.
Una storia non esiste se non viene raccontata....per questo nei bambini di Deir Ezzor, l'autrice grida al mondo tutto l'orrore e la disperazione che vede i bambini vittime di uno dei più cruenti conflitti tutt'ora in corso, la guerra in Siria. Non sanno più giocare quei bimbi, intrappolati nel vortice dell'odio, gli affetti strappati, l'infanzia spezzata, feriti, uccisi da gas letali o dalle bombe che ne dilaniano i corpi ed i sogni. Quanti anni avevano, come si chiamavano questi bambini? Angeli innocenti pieni d'amore, piccole perle dal cuore incontaminato, si sono addormentati sognando di vivere la propria infanzia in pace. Una poesia vera ed essenziale, che risveglia le coscienze di chi legge dai toni delicati ma forti, perchè è disumano poter accettare la sofferenza di un bimbo ed è giusto ribellarsi a questo abominio, perchè il dolore di queste anime innocenti è inaccettabile e la crudeltà inaudita che può toccarli è un'ingiustizia incomprensibile.
Gabriella Manzini
Inascoltati sono le grida, stanotte, all’isola dei conigli
il pianto è inghiottito dal silenzio, immobile, senza eco
le ombre solcano maree
ed il tempo oscilla in onde lunghe
dove estranea affiora la morte, l’apocalisse, il quarto vuoto
tace la vita
premono i gesti,gli schianti e poi le voci
l’ansimare del mare, la caduta
e tutti accampati al limite del nero come fosse fuoco
percossi dall’invisibile, dalle schegge di brina dell’inverno
e bimbi, madri,padri come fango
levitano come appesi ad una croce
si posano, si tendono, s’allungano, profumati d’Africa
così la vita cede cantando in contro tempo
in uno Stige d’acqua salata, in un ignoto limbo dispiegato nella quiete.
Non ci sono galeoni scomparsi, sfavillio di pesci
non ci sono organze stasera alle finestre in questa bonaccia di tempesta
il vento sfiora gli albicocchi
e canta il vuoto che lamenta perdite,le parole della neve
brilla nel mare solo il rumore delle ossa
che si tende piano .
E lentamente tutto divora.
Primo premio "Gens Vibia"
Hanno compilato errori portandoli per mare,le tre madri,
impiegate a vita di un perfetto calendario
preposte al vento freddo di dicembre
madri per sempre, donne di sere lunghe
è bella Rita, ha occhi di falena, il sorriso beffardo delle lucciole d'estate
sfoglia Vanity Fair dal parrucchiere, vestita in fucsia
cercando nuovi amori fuori porta
da mettere al posto giusto,come un vestito nuovo o un'abitudine
Laura conta numeri in una stanza dal soffitto basso
arruffata in un tempo assorto e solo, sognando un castello delle fiabe
un uomo dalla cravatta colorata, un figlio dagli occhi di cerbiatto,tutto suo
il corpo affogato in pranzi fatti al volo
la mente persa in bilanci, fatture e preventivi
l'inverno a lato cuore, in pigre utopie di anni già vissuti
Anna vive di fretta, arresa ad un uomo senza condizioni
l'asilo, la danza,la palestra, la pall mall che brucia nella mano
levigando una polvere già antica
sognando un vestito già da sposa, gli orecchini in perla,
lo chignon e i fiori sui capelli chiari.
Ed a sera, girando le chiavi nella toppa
nell'uggioso grigiore dei cortili
trovano un nuovo esilio, una tv distratta
adagiate nei loro vizi troppo brevi, nelle lezioni perse a mezzo del cammino
e vivono ogni giorno di gesti ripetuti in un abitacolo d'illusioni da abitare
sognando di gettare l'ancora in un atollo di coralli e di conchiglie
e farsi vela nell'amplesso di una vita capovolta.
S'attarda quest'estate a rammendare un vuoto
in un lento adagio d'ore
sui volti chiari dei figli addormentati
su donne vestite di farfalle
si disperde lieve e tace
e dilaga
su un’ agonia di neve
su una rosa capovolta che ha perso il suo profumo
le ore si muovono come in dondolo
affondando il cuore in uno strazio lento
al sogno di un mandorlo fiorito
di un bosco profumato di menta e di limoni
è sera d'indaco oggi a Stazzema
le campane impiombano tristi uno strano ritornello
la morte ha tacchi a spillo e sta per entrare
somiglia ad un angelo di brace
le labbra di fragole e lamponi
ci bacerà sorridendo bionda
in un connubio di polvere e di cenere
in un pulsare greve d'infinito
il silenzio si farà vermiglio
e l'ombra di rugiada.
C'è solo l'ombra di Dio
quasi un roseto in fiamme
a tingere di bianco la sete di notti insonni
che sanno d'inverno
di un gioco a mosca cieca
senza nè vinti
nè vincitori
c'è un cielo sparpagliato di maggio
il linguaggio muto dei sassi
gli occhi azzurri dei fiordalisi
le bocche spalancate dei papaveri
ormai sfioriti
il fuoco fatuo di un'amara terra di paese
in giorni piumati di freddo vento
c'è un angolo di cielo che si inarca
illuso d'amore in un'ipnotica nenia
il gesto aspro di piogge leggere
la luce umida sui ciottoli antichi
assestati su un cuore stropicciato
sono sepolte le stelle
è spento il guizzo delle rose rosse
e l'ombra di Dio troneggia tra i muschi e le serpi
nei cerchi di grano
in questa vita recisa lungo le banchine del porto.
Nel silenzio della lontananza.
Non vergognarti del viaggio,del tuo cappello pieno di pioggia
delle cose mancate,della tenera discesa verso il buio
attraverseremo il ponte di ferro insieme
scenderemo da una vita fuori stagione, da un orizzonte raccolto
da un pontile vuoto verso l'azzurro
saremo fuori dalla calca dei sogni
un ciclope che intreccia le reti accanto
oltre gli stracci di un santo bevitore
avremo un giardino fiorito di papaveri
una donna che impasta biscotti e fili d'erba
lassù oltre lo strapiombo delle rose
ci addormenteremo su sedie colorate
gli occhi fissi sul pontile
il cuore aperto al mare
allargheremo l'amore accanto ai gusci vuoti di conchiglie
accarezzeremo onde, così ordinate, così vaghe.
E ci sarà il silenzio delle parole rovesciate
gli odori della sera
neve e foglie sotto i viali
la bellezza dei semafori e della pioggia
un'alba con le gocce sopra il vetro
sarà un inverno sdrucciolato di sole
e la primavera sarà carica di miele, di erica e di acanto
vivremo di un dolore calmo sul treno della sera
le fronti inginocchiate al finestrino per pensare
alle vite di passaggio
al sole lontano e solitario come un desiderio che resiste
cammineremo sulla sabbia con un bastone e delle ombre
raccoglieremo legni bianchi
in quel posto senza luna
dove l'ultimo gesto di coraggio è solo il mare.
E arriva più o meno alle sette la triste signora dalla vernice scrostata
dopo una notte in cui l'odore dell'altro è qualcosa
un faro ammaccato, le gomme consunte
vibrando il suo affondo in mattine con la nebbia negli occhi
in grigie folate di attese smarrite
arranca in sordina facendo salire le vite degli altri
dolori dalla memoria potente
la polvere che appanna gli sguardi, il caos scomposto
il silenzio che spezza il mattino
la stanchezza invisibile di un equipaggio dalle gomene spezzate
c'è un capitano dagli occhi di ghiaccio
badanti, emigranti, operai, pendolari dai sogni recisi
la pioggia che cola indecisa sulla strada asfaltata
un fuoco di campo
e clochard che si respirano addosso
i loro ricordi appena accennati di ginestre e caffè.
Si muore così, un poco ogni giorno, in questi giorni dall'orlo sdrucito
in una dissonanza di sguardi e sorrisi, seduti nel 7b, il solito posto
con un fiocco slacciato, le gambe bianche di luna
immobili ad un finestrino che non riflette la vita
noi mozzi di onde violente
di cordami appena spezzati.
Prima di ancorarci dopo la curva alla riva: in Via Alamanni, più o meno alle sette e quaranta.
Una finestra aperta sulla realtà, l'inverno che persiste, la stagione del risveglio è lontana. Lo sguardo colpevole attraversa il vetro come fosse una lente d'ingrandimento sulla quotidianità, un susseguirsi di visioni che scorrono veloci come i giorni dell'indifferenza, le situazioni ed i personaggi si accavallano in un marasma di desolazione, simile a quella vista i giorni precedenti ed ancora presente. Una poesia amara, che ha il sapore della sconfitta, ma nello stesso tempo emozionalmente suggestiva, in maniera poetica evidenzia la realtà senza mezzi termini, in visioni poetiche per raccontare l'inverno che ancora non conosce risveglio.
Mauro Marzi
E' fanciulla in fiore Jasmine
ha pelle d'Africa, scapole che portano al mare
la bocca rossa dei giocolieri e dei pagliacci
un braccialetto di turchese che si tende al polso
quando alla sera carica le pallottole nel tamburo
ad un chiaro di luna spento
ad un futuro già datato
è Venere caparbia Jasmine in un regno dai colori ad olio
quando cammina senza peso nella vita
e c'è fuoco intorno
il fumo dell'ultimo sparo
un sangue dal sapore dolciastro che ondeggia tra lingua e palato
un brusio di morte impigliato tra i denti
è vergine di nebbia Jasmine
quando misura il suo cuore svogliato e fa l'orlo alle lacrime
oggi che non ha l'abito da sera
oggi che si liscia l'anima e ha addosso l'inverno
oggi che andrà senza muoversi a cercare la fine del sogno
nessun alibi per la morte
nessuna compiacenza per la vita.
Domani non sarà più Jasmine
dieci anni
virgola in un soffio d'eterno
piccola goccia di neve
kamikaze di Kabul.
La poetessa disegna i tratti di una giovanissima vita votata alla morte, contrapponendo al deserto circostante in cui la sua scelta, inconsapevole e certo indotta, matura, tutti i colori e i giochi che, mescolati a gesti e sapori di guerra, stanno, come una sequela di promesse mancate, ad indicare un “futuro già datato”, che non si compirà. Le quattro strofe in verso libero, che si distinguono per la scelta lessicale sobria ma puntualmente efficace, sono capaci di restituire il dramma senza chiamare mai il lettore alle facili emozioni, ma costringendolo, piuttosto, al ripiegamento interiore e ad una dolorosa meditazione sull’inanità della violenza.
La casa d'acqua
Ci sono nodi nei capelli in questa casa d'acqua dietro l'angolo
e lustrascarpe, uno scialle di lana, ciotole dove bevono tutti i gatti del quartiere
ed io, quando si fa sera
gioco a carte con giullari,arrotini e falegnami
sognando il mare che si allontana, il rosso gelso in cima alla collina
qui i giorni conoscono la misura del castigo
affidati alla pioggia, al rumore che facesti partendo
e si capovolgono passando distratti accanto al cuore
vagano in un soffio silenzioso
moltiplicando illusioni senza scopo
mischiando il passato ed il presente
i passi sospesi sui marciapiedi vuoti
il tempo si è portato via molte cose, anche l'essenziale
l'ipocrisia calcolata
i pochi vestiti d'occasione, l'inchiostro della mia penna
la cenere dolce dell'amore.
C'è tanto dolore scritto sul corpo
ora che chiedo e non ho risposte
ora che ho una chiave ma non una casa
ora che conto il volo azzurro delle sillabe
e non c'è alcuna donna a leggermi la mano
solo un venditore di stoffe nella finestra di fronte
che guarda le nuvole
e dipinge con colori a pastello il canto mattutino delle lavandaie
la sua notte da primo commediante
e disegna a matita il falò della mia anima
che brucia, fatta di neve
in un volo senza pace
mentre io scrivo il tuo nome sopra al muro
e mi accontento dei miei pochi versi
che rubano il silenzio, il desiderio del rimorso
lo sconcerto della morte sempre più vicina.
Non vorrei più nascere poeta.
…. ricordando Dino Campana
Ottobre millenovecentonovantacinque
E' quasi bella la morte
fragile, inspiegabile, sola
in osmosi sul tuo seno candido
insonne sul tuo corpo percorso dal disordine
piegato dal tempo
logorato dagli anni
la sciarpa azzurra trattiene una carezza sul collo
e c'è silenzio
un senso di smarrimento
una mancanza di coraggio
in questi attimi dalla bellezza sospesa
quando il mondo fuori spegne i rumori
ed io salgo a ritroso tre scalini
in quel dolore che si fa feroce, poi quasi delicato
c'è una strana attesa nell'iride dei tuoi occhi stanchi
un epigramma appeso al cuore
un brivido rosso sulle persiane accostate
ora che il bicchiere d'acqua fresca resterà li
ad evaporare sul comodino
e ci sarà la neve sui viali
e la follia degli angeli in cielo
a tenerti stretta la mano.
Ed intorno la silenziosa stretta del mare
l'occhio tondo dell'angelo, il molle torpore del mese d'agosto
c'era la lenza che scivolava nell'onda, affondava nel blu dell'abisso
accarezzava boline e maree
facendo l'amore col corpo del marlin, un'azzurra scintilla tra il sartiame e la prua
e dietro ancora poi ancora si espandeva un'ombra, poi un'altra
un'eco lunga in risposta al profumo del sangue
i pescecani avanzavano tra il sartiame ed i flutti
folleggianti in un allegro banchetto di morte
le fauci spalancate all'orrore profondo.
Sull'albero in mezzo Santiago osservava la perfida scena
vedeva la tragica lotta e la beffa divina
le pupille ormai vuote
s'apprestava a stimare la sera quando ancora era un richiamo lontano
lo sguardo offuscato e deluso dal tutto
il dolore screpolato dal sale e dal sole
così lentamente svelava il suo remo, il richiamo del vento, il rossore battuto dell'onda
ed invocava un Dio senza voce, il suo brivido d'oro,gli occhi chini persi nei flutti
ed accanto al timone giocava a carte da solo
fumava calmo nella sua pipa di radica antica
innamorato solo dell'albatro bianco
indolente e sgraziato compagno di viaggio
ed aspettava che accadesse di nuovo
rigettava un'altra volta la lenza
vecchio Odisseo dipinto di bruma
e sentiva ancora e soltanto il silenzioso vagare dell'onda
ancora e sempre
l'inquietante, assoluto, infinito silenzio del mare.
Al mattino Santiago sognava gli aironi.
Apostasia d'amore
Adesso che vedo sulla neve le orme di mio figlio
così leggere, con un azzurro dove si posa l'ombra
tutto è piagato,immobile
il cielo che si allarga e si ispessisce
l'anima che si accascia in una marcia stentata
la morte che mi cresce addosso come un tralcio di vite
ogni giorno penso alle nuvole morbide e tristi
a quella corda stretta al collo
al sole ed ai suoi raggi
alle estati perdute che ritornano, ad una ad una
prendendo il loro posto senza inganno, senza alcun dubbio
indugio pensando ad un pallone che echeggia tra i muri alti
al profumo improvviso del trifoglio
al calore dolce e rude dell'amore
alle dita di mia madre che si stringevano in instancabili cadenze
ora che la malasorte ha dettato le sue parole sapienti
ed è dolce il cenno della falce
che mi attende oltre la pergola, al crocevia delle stelle.
Oggi guardo il mare, il confine del sogno
nel mio abito di porpora e con la corona d'oro
contando sulle dita le poche stagioni che mi restano
abbracciando il mio Dio dagli occhi luminosi
il mio Dio del disincanto.
Fuori nevica silenzio e non c'è neve.
E' arrivato in un giorno d'inverno
la lunga giacca di velluto azzurro, laborioso come un'ape
calpestando la rugiada del prato, gli sterpi delle rose,gli inganni mutevoli dei sogni
è entrato a tentoni, senza bussare,senza chiedere permesso
divenendo un'ombra confusa
addossato alla frontiera dei tuoi occhi,alla pianura del tuo cuore
alle periferie delle tue giunture, delle tue ossa
si è fatto spazio piano piano dentro l'armadio di quercia
posandosi in silenzio tra sete giapponesi e porcellane bianche
si è assoggettato al nostro calendario
ingoiando il tempo,la lentezza della luna, le fiabe di calicanto di novembre
ha stilato condanne,destini, perdizioni
rilucendo malvagio nelle sue dita da ragno
vermiglio, torrido di sole, sul nostro amore immenso, rotondo, bello come un fiore.
Ci è caduto addosso sorgendo dal nulla,perfido bacio della buona notte
e la nostra nave si è persa in una burrasca senza stelle, in un mare senza sirene
vagando sempre più a largo, in onde sempre più lunghe
ed io ho cercato una ragione, la vetrina di un caffè
un gesto che fosse scintilla, una lacrima di lusso
chiudendo gli occhi allo spasmo infinito dell'inganno, all'inizio e poi alla fine
alla pioggia dentro il vento di ponente
al temporale che si annunciava indifferente
e mi sono attardata nel tuo corpo chiaro e bello
amandoti come se amarti fosse un abito indossato la mattina.
Ed anche adesso, tra le nubi basse di dicembre
con questo ospite inatteso dentro il letto
con i suoi passi che calpestano la neve
nella nostra casa di sabbia e nebbia dove si è fatto sera
ti amo in questo vuoto a strapiombo sulla vita e sopra il mare.
La farfalla rossa
E li ricordo ancora i passi incerti di Amal quel giorno nel prato del diavolo
il rossore del viso, le fioriture mosse dal vento
il paesaggio che ritornava, ricopiato sull'erba bruciata
i giallo ed il nero
ed il merlo assetato, l'inganno di una luce lontana
una rosa purpurea che sbocciava in estate nel campo di grano assolato
e li ricordo i battiti del mio cuore impazzito
il suo sorriso che volava nel cielo bruciato
la farfalla rossa che scivolava nel fuoco
ed il lampo, il fumo, un argento di fiamma, il volo del moscone dorato
il fiore di sangue che sbocciava sull'abitino attillato
era morto anche il sole
insieme alle ombre, alle vene di foglia
ai passi corti di Amal svaniti nel nulla
si stemperavano arrese in un vortice le sue corse tra i sassi del fiume
il suo odore di latte e di buono
le sua manine paffute, i suoi gesti rimasti incompiuti.
E poi ricordo solo mio padre, le ciglia bagnate di lacrime, l'asino col carro di aranci
il vento tra i rami del mandorlo
il bollitore sul fuoco prima delle urla ed il dolore
il flagello del sole e la vita che se ne andava lontano
in quel silenzio di morte che galleggiava nel prima e nel dopo.
C'erano solo soldati d'intorno
i fucili alla mano, gli elmetti d'acciaio
i loro ordini sul campo di filo spinato
i delitti atroci compiuti da loro e dai loro antenati
e c'era una pena da portare nelle tasche bucate
senza poi farci caso, senza fermarsi
perchè tutto accadeva in silenzio
per noi che non avevamo passato e nessuna pietanza sul fuoco.
Ci sono lunghe crepe al soffitto della casa dei folli
finestre murate a calce
l'abbecedario della vita che si perde in viscide carezze di formica
ci sono storie storte che diventano malattia
lo sporco candore della neve
quando a notte cadono stelle addosso e domina l'orgasmo del silenzio e la penombra
sulle grida agonizzanti delle donne
sul cedimento, il franare continuo della vita
tutto tracima negli incesti da subire
nelle violenze che lente si espandono
scavano il corpo,la mente, il cuore.
Gli uomini hanno il cappello della domenica nella casa dei folli
i vestiti di mussola sono strappati
e i lupi si nutrono di salamandre
nel bianco sipario di luce appena accennato
c'è il congedo dello spazio, del tempo nella casa dei folli
i vaghi presagi, i lampi che tornano, i fiati addossati sul muro
ed io ho una rosa ed un lillà accanto al mio letto
le stigmate rosse pulsanti
e dormo insieme ad un Dio sceso con me dalla croce
sognando Notre Dame alla sera, lo stridore dell'arco e la corda
le membra racchiuse in uno spasmo di luna
in un culmine d'onda, per lenire l'assonnato dolore
così scrivo col viso bagnato dall'ultimo bacio
parole impastate di cielo e di carne
scrivo di vento, degli ultimi fuochi d'agosto
del canto di una coccinella che muore
scrivo poesie componendo preludi d'amore e brucio da sola
osservando compiaciuta il mio rogo.
Prima che la notte disegni le ultime ombre,le lotte dei ragni,
le fronde incantate dei crochi morenti.
E' lassù oltre la siepe di rose Macondo
dove la luce declina sulle capanne d'erba, dove ci sono pane fresco, latte e vino caldo
camerieri con livree e pasticcini
un piattino con gli spiccioli e le chiavi
ci sono sere come tante lassù a Macondo
le donne hanno occhi d'oro, seni in fiore, ombre viola posate sopra i fianchi
e le case vivono tra rampicanti d'edera,con terrari e tartarughe
le porte aperte all'alba, le finestre riversate sul cortile
si mangia con bicchieri da osteria, lassù a Macondo
si accordano chitarre al canto di cicale
si arrotolano le ciocche dei capelli delle donne
e dopo mezzanotte ci si rannicchia dentro il sonno ogni sera con un amore nuovo
il gelsomino fiorito sul cuscino.
Ed ora che sei lassù, libero docente nella cattedra dei sogni,
scriverai sul ventre basso delle nuvole del viaggio del Buendia, del colonnello, delle puttane tristi
della follia della gente che cammina
e noi quaggiù saremo soli nell'ora delle strade vuote
le bandiere senza vento
a concederti l'addio, commossi dal ricordo, dalla lentezza del tempo che ci veglia.
Avremo la polvere nel cuore e nelle scarpe buone
al di là del nostro andare alla deriva
dispiegati come giunchi al vento freddo della sera.
Ed io
gli occhi infossati che ombreggiano lo sguardo
il ventre prominente
lo posa da sconfitto
plasmo il tempo del mio cuore nell'ora d'aria
il lunedì chino sulla pioggia
il martedì appoggiato ad un livido sprazzo di sole
e fisso gli avambracci nervosi
le macchie bluastre dei tatuaggi, l'ancora sbiadita, la rosa gialla
dura poco l'ora d'aria
quando il cielo è imbevuto d'azzurro
e ci sono mirti e biancospini in fiore oltre il cancello
sogni che sorridono dietro la porta
le gambe lunghe delle stagioni ormai passate
e vorrei parlare con Dio
legargli i polsi con un monile di rame
prima di ritornare dentro
e risentire il tintinnio delle pistole
il cigolio delle celle che si aprono
il monotono scricchiolio delle scarpe dei secondini
le urla dei compagni carcerati.
Sono prigioniero da vent'anni e sto morendo
una stagione di pioggia nelle tasche
il silenzio che sboccia nell'anima
bianco e diviene urlo
cicala morente di un'estate senza fiori
così sto qui in esilio
aspettando il bivacco stanco della sera
e nel frattempo sogno
lo zucchero sul pane
il tic tac degli orologi persi
il mare delle Highlands
ed infine l'amore o quasi
nell'ora d'aria.
Di primavera
una domenica mattina.
Sono viola
gli occhi della nera signora
accarezzano foglie rinfoltite dal sole
con lame taglienti di falce
voraci di un'altra piccola anima
di un altro solco di pianto
sogghignano
cercando stelle cadute nel pozzo
la pioggia sottile d’aprile
il non risveglio di un respiro spezzato
si allungano negli squarci del tempo
inghiottendo le urla e i rimpianti
travolgendo lo spazio che riempie le forme
poi sorridono ambigui
succhiando l'onda di mare
con un altra preda nel cuore
contando granelli di sabbia
il dolente ritmo dell’acqua
le lacrime che tacciono in gola
tutto è fermo senza suono e colore
è dolorosa la luna
è in assedio la vita
e i semi delle rose sono polvere.
"Vera e raffinata poesia questa di Tiziana Monari che si avvale dell'ausilio di una sottile vena malinconica e di un linguaggio di rara suggestione evocativa. Versi intensi, di grnade pathos, versi che ricamano inquietudini, dissonanze
di sogni, penombre e smarrimenti. La condivisione è totale, poichè, quando la poesia proviene dal profondo assume veramente un valore universale che riesce a coinvolgere ciascuno di noi. Siamo tutti precari della vita. Tutti abbiamo incertezze,paure chiuse nel cuore, vuoti da colmare, fragilità e ricordi .(A occhi bassi ci innamoriamo del sole, divenendo cenere, polvere di seta, un fumo calmo e lento, prima della sera).
Angioletta Masiero
Presidente di giuria Andrea Vitali
Ed Ivo in una stanza spoglia, le battute sciape
i brindisi con lo spumante dolce ed i bicchieri di cartone
sentiva il fallimento che si stringeva nelle spalle, la faticosa cortesia del commiato
e tra i cd di Mina e di Vecchioni e la poltrona Frau
si facevan largo i passi lunghi e rigogliosi dei ricordi
l’assalto della memoria che svaniva
così Ivo, uno e settanta,
la barba folta e grigia,gli occhi bassi,le mani morbide come mollica
la maglia azzurra legata al collo, rivedeva in sogno
i fili fluttuanti del cotone, i jacquard delle stoffe colorate, subbi e stracci
le donne con i camici blu, i capelli raccolti, chine sulle pezze.
E si accorciavano i pensieri, trasformati in stelle,
si mischiava la tristezza tiepida all’infima grandezza che moriva
c’era gloria in questa decadenza , nella fuga verso il silenzio,
in una città dal cuore affievolito come un amore ormai alla fine
c’era una tenerezza piena, ed il profumo di vino svaporato che si espandeva nelle strade
agli angoli dei capannoni stinti
tra i muri scrostati, in una desolazione bellissima ed infinita.
Poi tutto si apriva al nulla, nel vento che si accaniva sulle foglie
e nel cielo gli aerei non lasciavan scia
solo un dolore sottile come un taglio
e le mille ombre sottili della sera.
E lo ricordo il nonno
gli occhi color fiordaliso
il maglione di lana grezza
il berretto posato di sbieco sopra il capo
raggiante in una piccola malia di luce
con Jack al suo fianco
il pelo che vibrava in sordina
le vene che pulsavano forte nelle corse tra i sassi di fiume
partivano nell'intricata topografia del mattino
oltre la torre guelfa
scivolando come penitenti tra le foglie del bosco
in un piovere quieto di luce
perdendosi tra chiocciole, civette e pernici.
E Jack smarriva l'occhio al cielo
il muso schiuso ad umidi profumi
il naso che pulsava aperto e chiuso
le zampe che scavavano in un fremito profondo
ed all'improvviso appariva un tubero odoroso
sbucato dall'abisso, vivido e chiaro
celato sotto una quercia quasi eterna
ed intanto si faceva sera
l'ombra strisciava nei rovi e nei cespugli
un bianco di farfalla usciva insieme al buio
ed il nonno e Jack tornavano felici
sbirciando il comignolo di casa
sognando il fuoco scoppiettante del camino
e nelle tasche una piccola fortuna
l'oro della terra
un bianco bel tartufo.
Ci sono grandi navigli, sogni di porti infiniti
ed ombre di navi antiche negli occhi dei bimbi di Tikrit
nell'iride scura si intravedono il principio e la fine
un cavallo azzurro ed un usignolo
quando al mattino la polvere del deserto si fa furiosa
ed il canto dei proiettili sale silenzioso nel cuore delle madri
accarezza i volti timidamente
i corpi neri di farfalle dagli occhi d'oro
c'è una morte diversa negli occhi dei bimbi di Tikrit
una morte che solca il cielo in un sussurro
infuoca le colline , fiammeggia sulle radure
annunciando il freddo e la neve
l'ultimo fuoco del giorno
l'ala buia di Sirio
il grido a sud della civetta innamorata
e quando la luna piena è in cima ad ogni spiga
nelle palpebre levita un canto d'Odisseo
un fuoco fatuo, un barbaglio di lacrime che scorre sulle guance
in quella terra di nessuno dove il tempo è immobile
la bussola assopita
dove la vita è fragile conchiglia
e la morte ha solo cinque lettere
ed un sonaglio d'argento nella bocca.
Ed il cuore ritornava verso casa
planava sopra il sole d'Africa
sfuggendo al tempo degli uragani, alla spuma delle onde
e c'erano uccelli abbozzati nel cielo, nasturzi fioriti
il silenzio degli alberi , un ragno che tesseva una fitta trama
ed il corpo restava qui, leggero come una foglia
in questi ettari di terra condannata
a raccogliere i fiori bianchi della Louisiana
nell'indifferenza delle stagioni, nel disordine del mondo
con i passi pesanti di qualcuno nella notte
qui dove non c'erano lucciole e stelle
dove i più se ne andavano con le ombre
qui dove la morte faceva l'amore con le catene
con la solitudine dell'esilio
e c'era il dolore, le nuvole in corsa sopra ai declivi
una piccola meraviglia di polvere.
E i bianchi avevano occhi da tigre, il panciotto colorato
tiravano fili, cambiavano scenario
preparavano il tè, i cucchiai, i biscotti
conversavano di scambi e denaro
in un tempo senza impronte
luttuoso e monocorde
in queste piantagioni di fioriture tiepide come cristallo
dove si attutivano le voci degli schiavi e si addensava afosa l'estate
e non c'erano stanze, solo capanne e sandali laceri
la vita che si dissolveva lentamente nel medesimo tragitto
nelle mani un petalo di fiore di cotone
e solo l'abbandono intorno
nella consolazione arresa ad un triste oblio.
musicata dal maestro Francesco Trio (vedi video)
Io che non assomiglio a nessuna madre,non porto mai scarpe chiuse
e ho una borsa senza sogni come la mia vita
stanotte guardo un punto fisso
per non sentire le fitte al ventre, lo stomaco che sale e si rovescia
in questo mare che sbatte e porta indietro qualcosa
in queste onde azzurre come l’azzurro di una città morta
e il mio corpo aperto trema, illimitato muove ombre, guarda una stella e lune arabe
quando arriva lei che come anemone fluttuante strappa la mia carne
geme roca, i capelli riccioli di vento, la bocca morbida di datteri
un piccolo calamaro alla luce della notte, una vergine di sabbia calda
piange su questa serpe scolorata e cupa
su queste anime dalle gambe magre scivolose come topi, che ci fanno compagnia,
le teste basse bianche di polvere,le mani creste rotte come il legno della barca
urla in questa notte nera ed io penso ad una zona di transito dove si arresta la vita
ad un campeggio di finti turisti, a delle sedie pieghevoli, a dei limoni in giardino
ad un sogno da mettere in tasca e sotto il cuscino, penso ad una vita gonfia d'amore
unita in due lembi di tempo, rossa di semi,il cuore del mio mondo lasciato.
Ma la grande solitudine del mare disegna la morte
nel nostro esodo rotto dal vento, inchiodato alle ossa.
Prima della tempesta.
Nota critica del maestro Francesco Trio
Il brano, ispirato alla poesia omonima vincitrice del premio di poesia Le ali di Pindaro messo in palio dall'associazione culturale “Pleiadichorus” di Procida, è scritto sotto forma di poema sinfonico ritrae il momento della nascita di Jamila, su una imbarcazione di immigrati nel bel mezzo di un viaggio della speranza ed è diviso in tre momenti:
-l'angoscia del vivere: è il flashback di una donna, che, sola nella disperazione del proprio stato di profuga ed incinta , rivive quei pochi momenti di serenità troppo presto dimenticati a fronte degli orrori della guerra e delle umiliazioni vissute.
il tempo asimmetrico descrive contemporaneamente l'ondeggiare scomposto delle onde e l'instabilità emotiva della donna.
-della meraviglia di un crudele destino:il miracolo più bello del mondo, la nascita di un bambino, risulta ancora più clamoroso in questo contesto di disperazione assoluta. L'introduzione, ricca di tensione, lascia il posto a continui cambi di tonalità che accompagnano verso un crewscendo finale la nascita di Jamila.
-della tristezza di una gioia soffocata:il primo momento di intimità tra Jamila e sua madre. Un tema semplice nella sua struttura ma complesso nella tessitura del contrappunto è l'inno della vita che la piccola Jamila canta al mondo.
Il finale è metafora della fine di tutti i dolori e le angosce.
Si spegne la luce sugli orrori del giorno, è notte.
Solo grazie alla stanchezza di un'anima sola, il corpo dorme senza riposare in questo viaggio della speranza. La speranza che fa vivere quando si vorrebbe morire, la speranza che fa sognare quando non c'è più niente in cui credere, la speranza che fa sopportare la sete, la fame, il freddo, il passare dei giorni in attesa di qualcosa...quel qualcosa che si traduce nella violenza sconosciuta, quel carnale che entra nelle viscere per sputare fuori la disperazione della guerra. E così mentre l'angoscia e la disillusione si impossessano definitivamente dell'anima, Jamila si lascia stipare nella barca dove i corpi si ammassano trasportati dalle onde e dove il ventre gonfio sembra ormai indifferente al dolore. E proprio nell'indifferenza della luna, dei respiri flebili degli altri compagni di viaggio che all'alba arriva la luce nuova: Jamila.
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