La nera signora

 

Giovane Holden Edizioni

Silloge poesia

Isbn 978-88-6396-370-0

Pagg. 56

Prezzo € 12

 

 

 

 

 

 

 

A volte il titolo di una raccolta dice poco sul tema trattato, ma in questo caso La nera signora è già di per sé esplicativo. Certo non ci sono i richiami o le paure, per non dire le angosce, di scritti e di affreschi di epoca medievale, con quel “memento mori” che ossessivamente viene ripetuto per rammentare che la vita terrena non è eterna. In questa raccolta, pur se il titolo è alquanto emblematico, c’è invece un senso di consapevolezza della caducità dell’uomo, che senza essere una vera e propria rassegnazione, non diventa comunque lo spunto per esorcizzare la fine, quel termine di cui abbiamo conoscenza assai presto e che nel corso degli anni volutamente ignoriamo, per poi farlo riemergere quando l’età si fa impegnativa, quando il tempo che ci resta è assai presumibilmente inferiore a quello trascorso. C’è invece il passo di ogni essere umano che calca questa terra ignorando il domani, ma cercando di vivere ogni istante, in quella logica che Orazio ha sintetizzato così bene nelle sue Odi con la locuzione “Carpe diem”. Che poi questo sia il frutto del memento mori di cui ho accennato è indubbiamente ovvio, ma è anche il risultato di una logica stringente che essendo per ognuno di noi il tempo con un termine è d’obbligo agire di conseguenza.

La silloge – ed è opportuno premetterlo – non è né triste, né tantomeno dolorosa, ma appare appunto velata da un tono malinconico che le conferisce un senso rivelatore dell’ineluttabilità delle cose.

Ormai sono diversi anni che leggo le poesie di Tiziana Monari e ho potuto notare, che pur presentando, come per il passato, una serie di visioni immaginifiche, è venuta meno una certa sensualità giovanile, molto opportunamente sostituita da un riflettere più ponderato e profondo. Insomma, per dirla in breve, meno svolazzi e più sostanza, il che certo è frutto di una maturità che la porta a interagire con il mondo circostante per quanto concerne le problematiche generali dell’esistenza e, come in questo caso, della fine della stessa.

Ma la poesia è anche armonia e una riflessione senza una struttura equilibrata finirebbe con il rimanere solo una riflessione, e qui invece abbiamo poesia, una poesia mai greve e anzi accattivante, nonostante sia permeata di filosofia. Liriche come quella dedicata a Pierangelo Bertoli, un cantautore troppo presto venuto a mancare (…/Ti ricordo così in campo lungo/ una farfalla senza volo, la voce d’usignolo/ un germoglio che fioriva tra le ruote sull’asfalto buono/ della strada/ mentre seminavi parole ed echi/ nel silenzio della pelle, nella marea notturna della primavera/ e morivi in un giorno in cui il vento amoreggiava col grano/ oltre il cortile e la stanza/ l’ultima canzone d’amore nelle tasche, la voce delle pietre/ in fondo all’anima.) hanno una forza tutta loro che si fonda sulla funzione evocativa delle parole, sull’equilibrio fra ciò che porta dolore e l’immutata realtà di una natura che continua a esistere. Questa discrasia, questo richiamo al potere figurativo che meglio delinea il corso delle cose è forse ancor più evidente in Mare d’inverno, laddove, a fronte di un mare, al tempo stesso oceano di vita e indifferente giustiziere della stessa, un naufragio assume toni epici, subito affievoliti dal momento del trapasso (…/C’è solo un buio teso al nulla, buio di mare, buio senza amore/ e i fianchi della morte acuminati e tristi. / Il suo abbraccio, le sue labbra umide di sale, / l’ultimo bacio dell’indecente signora. / Prima dell’oblio.).

Tutto così diventa naturale: gioia, dolore, felicità, perfino la morte, un’irrinunciabile esistenza di luci e di ombre. E proprio su questo concetto mi sento di rassicurare che La nera signora non è una raccolta poetica sulla morte, bensì sulla vita, in un caleidoscopio di immagini, in una serie di proiezioni che affascinano, e che Tiziana Monari ha saputo ben dosare, senza eccessi, sempre in funzione del tema svolto.

Da leggere, senza dubbio, non avrete da pentirvi, anzi ne ritrarrete un appagante senso di serenità.

 

Renzo Montagnoli

Alle cinque della sera

 

Ed io muoio ogni giorno

alle cinque della sera

deriso,cieco, sospinto e calunniato

chino nella sabbia sconsacrata di un’arena

fra le risa degli astanti

arreso all’infinita lacrima del sogno

ad un vuoto tra le spine,

ad un urlo straziato di giovenca

vedo solo buio sopra i fioriti davanzali

e timidi ventagli, e donne

con camicie fresche di bucato

colori forti ed una chitarra

sospinta fra gli scanni

 

tutto si piega, si asciuga sotto il sole

il sangue ed il flamenco

gli embrici curvati sulla fragile arenaria

quando il pelo lucente è trafitto dal pugnale

ed un uomo armeggia tra le mie ossa chiare

spenge le tempie, la mia vita

discende tra le tibie, buca il mio ventre

come falco lanciato sulla preda

 

c’è un odore sommesso di letame

il lezzo scuro della morte

mentre io lentamente dondolo, barcollo

mi capovolgo senza vita in un bemolle lento

le zampe in aria, a danza ferma,

nell’arpeggio dei cedri che si alza.

E’ polvere la morte,è sangue che zampilla,

ogni giorno striscia sul grano lieve

e mi trafigge il cuore, ancora ed ancora

ogni volta alle cinque della sera.

In un cerimoniale lento, che si ripete all’infinito.

Compagni di scuola

 

Quando si spezza il tempo

alla fine dell’estate

noi, vecchi compagni di classe,

ci ritroviamo qui ,all’orchidea blu

in una zona franca del cuore

raccontandoci bugie in cui non si crede più, prendendoci in giro da soli

colti dall’ansia dei sogni,

dall’acre smarrimento delle stagioni

e ci parliamo addosso, in una pausa di quel monologo che chiamiamo vita

 

ci sono dark lady di periferia,

le gonne corte di lana a pieghe

gli stivali scamosciati con le frange,

tacco dodici

e uomini difettosi, nudi d’anima

piaggiati davanti alla tv, ombre informi

tifosi di un Inter alla deriva

tutti qui, in una sottile frustrazione,

nell’esigua speranza delle illusioni

invecchiati in clandestinità,

a dissimulare acciacchi e ammaccature

nello scomodo ingombro

di giorni sempre uguali

 

tutti qui, nel calco scavato dal tempo, sospesi in aria senza una provvida ragnatela

sognando ancora nebbie adolescenziali,

un rifugio sicuro alle bufere della vita

mentre il mondo precipita alle spalle

 

e nessun biglietto di ritorno

a questa solitudine spaiata

che ammicca di malinconia e si allunga, leggera, profumata di qualche strana malia.

 

Prima del dessert.

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